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Regolare le crisi? Non illudiamoci, dice l'Economist

Fri 4 Apr 2008, 09.21

Nell'ultimo numero dell'Economist, un editoriale commenta il dibattito in corso sulle crisi finanziarie sistemiche: il tentativo di regolarle sarebbe un rimedio peggiore del male. La storia della banca e della finanza moderna, dal XVII secolo in avanti, è costellata da episodi di crisi, circa una ogni decennio.
La finanza, si afferma, è una mente che opera per associare lavoro a capitale, per consentire ai risparmiatori e ai debitori di rinviare il consumo, o di anticiparlo, per mettere le persone in grado di condividere, e commerciare, i rischi. Più il sistema è furbo, meglio svolge quest'opera. Un sistema che funziona male va a sostenere progetti che sprecano risorse e declina quelli validi, intrappola le persone nel presente, accumula rischi su di loro e rallenta la crescita economica. Qui nasce il dilemma: un sistema finanziario sofisticato e innovativo produce boom devastanti; ma un sistema costretto e iper-regolato condanna l'economia ad una crescita lenta.
Uno sarebbe tentato di prendere il meglio dei due mondi: diamo ai supervisori il compito di prevenire le crisi, lasciando l'innovazione libera di esprimersi finché non introduce squilibri eccessivi. La crisi dei subprime ha dimostrato i limiti del potere dei regulators. L'Economist indica i loro errori: tanta enfasi sui pericoli degli hedge fund, e poi la crisi scoppia nei comparti teoricamente più sicuri e sorvegliati, come i CDO tripla A e i reparti di proprietary trading della banche (appoggiati su veicoli fuori bilancio come le SIV), passando per le falle della normativa prudenziale pre-Basilea 2 e per le illusioni sulla stabilità dei rating. Gli hedge fund sono invece tra coloro che oggi assorbono le perdite sulle tranche di CDO più rischiose senza mettere a repentaglio la stabilità del sistema.
Sarebbe comodo dar la colpa ai supervisori, ma è il sistema ad essere coalizzato contro di loro: le idee nuove nascono nel mercato, che può metterci sopra più soldi, più tecnologie, più comunicazione. Quando il mercato soffia in una bolla, il regulator potrebbe farla scoppiare, ma chi ha il coraggio di scoperchiare il vaso di Pandora, prendendosi la colpa della crisi?
Il fatto notevole, così conclude l'editoriale, è che i mercati, nonostante bolle e crolli, continuino a funzionare. Le crisi sono il prezzo dell'innovazione e del sostegno alla crescita.
Viste da Londra, le cose stanno proprio come dice l'Economist. E viste dall'Italia? Il nostro paese non è tra quelli che producono innovazione finanziaria, tutt'al più la importa (con qualche ritardo) e la distribuisce. Siamo prenditori netti, e paghiamo il servizio (è emerso con chiarezza nella querelle sugli strutturati venduti alle imprese e ai risparmiatori). Milano non è Londra, e l'Italia, come sistema paese, non fa business sui boom di mercato. Il grosso del valore aggiunto è creato fuori dal paese. Occorre quindi stare molto attenti alle perdite conseguenti ai crolli, e ai loro effetti redistributivi tra residenti e non residenti e, all'interno, tra intermediari finanziari ed economia reale. Peraltro, il fatto di non avere massicce esposizioni proprietarie ci isola dalle crisi (pare che nel caso dei subprime si siano limitati i danni rispetto ad altri paesi europei), lasciandoci i mezzi per sanare i guai di casa nostra, che hanno nomi e cognomi ben noti.
Se Milano non è Londra, non per questo l'Italia è condannata soltanto a subire l'innovazione dei mercati finanziari.
In primo luogo, non siamo esentati da un lavoro di intelligence, letteralmente, dal seguire con intelligenza gli sviluppi dei mercati internazionali. Occorre essere molto selettivi nell'accesso ai nuovi strumenti, in molti casi la via più ragionevole per un privato, per una banca regionale, è quella di dire "no, grazie", il gioco proposto è sbilanciato verso chi ce lo propone. In altri casi si aprono dei canali nuovi, dove si reperiscono capitali o si cedono rischi a prezzi vantaggiosi. Quello che purtroppo si osserva è che l'innovazione finanziaria viene disseminata nel paese dai sales department delle banche d'investimento, e i problemi di pricing e controllo sono studiati nei tempi e nei modi dei progetti IAS e Basilea 2. Non è il canale migliore per formare un'autonomia di giudizio e una capacità di lettura del contesto globale.
In secondo luogo, possiamo rispondere all'innovazione globale basata su scambi di massa, impersonali, con forme di innovazione personalizzata, modellata sui bisogni finanziari delle nostre economie territoriali, ma capace di dialogare da pari a a pari con i mercati globali, e di servirsene con oculatezza, se conviene. Questa visione non interessa soltanto le banche cooperative, popolari e BCC, o i confidi, o la finanza etica, ma anche le banche maggiori, che hanno raggiunto le dimensioni dei loro competitor europei, ma sono ancora alla ricerca dell'accordo ideale tra le loro storie e un modello di banca globale, sempre però incentrato sull'operatività con famiglie e imprese.
Nessuna retorica, dunque: né quella del migliore dei mercati globali possibili, né quella del localismo e dell'autarchia. Tutt'e due al fondo sono pretesti per velare posizioni di rendita. C'è spazio per fare di più, per questo vale la pena rischiare.

Luca

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